Lo scorso 8 maggio, dopo un mese intero di proteste in tutta la nazione, il 42enne Nikol Pashinyan è stato eletto primo ministro dell’Armenia, ex repubblica sovietica situata nel cuore del Caucaso.
Dalle sue prime dichiarazioni, rilasciate nelle ore immediatamente successive alla sua elezione, Pashinyan ha lasciato intendere di voler ulteriormente rafforzare le relazioni e la cooperazione militare con la Russia, storica alleata dell’Armenia e attore cruciale anche nella disputa legata al Nagorno-Karabakh, il territorio a maggioranza armena conteso con il vicino Azerbaijan.
Durante un incontro con Putin in Russia, a margine del Forum Euroasiatico di Sochi, Pashinyan ha affrontato il tema della cooperazione in maniera diretta, arrivando perfino a richiedere un maggior supporto militare da parte della Russia (Mosca possiede già due basi militari in Armenia, ed è uno dei principali mediatori nella disputa regionale con l’Azerbaijan). Secondo Pashinyan, “la cooperazione militare con la Russia è la principale garanzia per la sicurezza dell’Armenia”.
Non è certamente un caso che il premier armeno si sia soffermato con tanta insistenza sul tema della cooperazione militare: Heydar Aliyev, presidente dell’Azerbaijan – riconfermato negli scorsi mesi alla guida del Paese – ha affermato di voler condurre il Paese verso “nuovi trionfi”, esprimendo la speranza che le elezioni presidenziali, un giorno, “possano tenersi in tutti i nostri territori”: una espressione intesa a richiamare in modo esplicito le due exclavi non riconosciute dalla comunità internazionale. In termini prettamente militari, in effetti, la superiorità dell’esercito azero su quello armeno appare incontestabile: oltre alla superiorità numerica, l’Azerbaijan può contare sull’enorme flusso di risorse proveniente dal settore dell’Oil&Gas, attraverso il quale ha recentemente rafforzato le proprie truppe e l’equipaggiamento militare in dotazione all’esercito.
Nonostante sia internazionalmente riconosciuto come parte integrante dell’Azerbaijan, il Nagorno-Karabakh è abitato per la maggior parte da armeni, e tra il 1988 e il 1994 finì al centro di un sanguinoso conflitto che provocò più di 20mila morti e circa un milione di rifugiati da ambo le parti. Dopo la guerra d’aprile del 2016, culminata con una parziale riconquista azera dei territori controllati dagli armeni, la situazione sulla linea di contatto sembra relativamente tranquilla, e una nuova escalation di tensione – nonostante l’aggressività della retorica azera - appare improbabile.
Mosca non potrebbe accettare un nuovo conflitto tra Armenia e Azerbaijan, perché è sostanzialmente interessata al mantenimento dello status quo (è anche per questo che vende armi ad entrambe le parti). Una nuova fase di tensioni potrebbe anche ripercuotersi sulle relazioni tra Mosca e Ankara: la Turchia è alleata dell’Azerbaijan, e nell’eventualità di un confronto militare sarebbe costretta a schierarsi contro l’Armenia, coinvolgendo anche la Russia (sua alleata nella risoluzione del conflitto siriano).
Dopo aver provocato le dimissioni dell’ex premier Serzh Sargsian – la cui nomina a primo ministro era stata la causa scatenante della “rivoluzione di velluto” guidata dall’attuale premier – Pashinyan avrà pertanto il fondamentale compito di mantenere la stabilità regionale, cercando nel contempo di bilanciare le ambizioni del popolo armeno e la necessità di una maggior apertura economica.
Autore: Riccardo Intini