Il complotto del gasdotto

  • 07 gennaio 2019
Il complotto del gasdotto

Riportiamo di seguito un articolo apparso su Limes, per gentile concessione del suo autore, Massimo Nicolazzi.

“La dipendenza energetica dal gas russo ci espone a forte rischio geopolitico e minaccia la sicurezza dei nostri approvvigionamenti”.

E’ un incipit che virgolettato potete mettere in bocca ad un preponderanza di osservatori; ed anche di decisori (Bruxelles pare ne brulichi). E dunque val forse la pena di guardarci dentro, cominciando a darne i numeri.

Numeri e volumi

In tempi recenti (dalle sanzioni in poi) il lamento si è fatto mantra. E dunque ci si aspetterebbe che coerentemente al mantra ci si stia concentrando e con risultati tangibili a diminuire l’assunzione del prodotto che causerebbe dipendenza.

Non va proprio così. Un passo indietro. Dieci anni fa, 2007. Consumavamo in Italia 77,3 miliardi di metri cubi/anno di gas naturale. Ne producevamo quasi 9 (ai tempi in cui il perforare faceva simpatia anziché orrore eravamo arrivati quasi a 20). Ne importavamo 23,80 dalla Russia; 22,10 dall’Algeria; ed il resto dalla Libia e dal Nord (Norvegia/Olanda). L’UE nel suo complesso consumava 483; e quasi la metà del suo importato era di origine russa[1].

Dieci anni dopo (2016) I consumi UE sono scesi a 428,28 miliardi di mc; e l’Italia è andata oltre la media fermandosi a 64,5.  Le importazioni dalla Russia, a fronte di questi consumi, sono state di 142,9 e 22,7 miliardi di mc. I volumi importati sono sostanzialmente stabili rispetto a 10 anni or sono; ma con la diminuzione dei consumi finali è sensibilmente aumentata la quota di gas proveniente dalla Russia sul totale delle importazioni.  Ci è diminuita in assoluto (per un impasto di crisi e di progressiva minor intensità energetica del nostro modo di produrre) la “dipendenza” dal gas naturale. Per il quale però siamo più “dipendenti” dal russo di dieci anni fa. Nulla indica o sembra indicare un reale sforzo di riduzione della supposta dipendenza. Del che si deve, in qualche modo, cercar ragione.

Rischio geopolitico

La “dipendenza”, si dice, è un’arma politica nelle mani del fornitore. E’ il paradigma della sicurezza così come forgiato dall’embargo del 1973 (legato al conflitto arabo israeliano e proclamato dai Produttori Arabi nei confronti di Stati Uniti e Olanda), con la sequenza di misure di risparmio energetico, ricerca di fonti alternative e domeniche a piedi che ne seguì.

Nei (quasi) quarantacinque anni successivi quel paradigma è però ampiamente svaporato. Molto lo aiutava l’idea della scarsità delle risorse, alimentata (anche) da iniezioni massicce di teoria del peak oil (e cioè dell’imminenza del raggiungimento del picco di produzione mondiale, con conseguente ripidissima discesa della produzione).  E molto anche la relativa limitatezza iniziale della spesa sociale finanziata nei Paesi produttori dalla rendita petrolifera. Entrambi i supporti sono da allora venuti meno. Sviluppo tecnologico e ripresa degli investimenti stimolata da un livello di prezzo ben oltre i 100 dollari/barile hanno compiuto la transizione dalla scarsità all’abbondanza.  Reinvestimento crescente della rendita in spesa sociale generatrice di consenso e (nel caso dei produttori non russi) esplosione demografica hanno reso impensabile la possibilità stessa di una sospensione del flusso di cassa generato dall’esportazione di idrocarburi. I produttori non sono più liberi di non vendere. Dipendono dalla rendita mineraria ormai più di quanto i non produttori dipendano dalla materia prima che ne importano.

Il gas russo è solo un’applicazione concreta del caso generale. La Russia è sicuramente e di gran lunga meno “monodipendente” dalla rendita petrolifera di alcuni produttori mediorientali (cui adde Venezuela e Nigeria). Nel 2016 ha comunque esportato (ai prezzi medi – e dunque eccezionalmente bassi – di quell’anno) idrocarburi per un controvalore di 73,6 miliardi di dollari; tra cui gas per 31,28. Al lordo della Turchia (che per collegamento infrastrutturale può essere considerata parte del sistema) oltre il 75% dell’export finisce in Europa, e per come sono messi i tubi può venire solo qui. Dipendiamo (in parte) dalla Russia per riscaldarci; ma loro dipendono (in parte) da noi per il loro welfare. Pare, più che una dipendenza, un equilibrio. Poi con la razionalità non ci si azzecca mai; però difficile valutare serio il rischio che ci puntino la pistola del gas alla tempia. Piuttosto ci puntano la fattura; che se non ci vendono il gas la pistola hanno molti più problemi a comprarsela.

Dipendenza

Che significa poi “dipendenza”? Per dipendere da qualcosa occorre che se ne abbia bisogno; ed anche che non vi sia nulla per sostituirla. Per il gas si aggiunge una condizione logistica. Il petrolio se riesci a caricarlo a mare ha costi di trasporto quasi privi di incidenza sul prezzo finale. Per dirla con Adelmann “the oil market, like the ocean, is a great pool”. Il mercato è globale. Il gas ha una densità energetica in volume pari a un millesimo di quella del petrolio (1000 mc di gas hanno lo stesso potere calorifico di un mc di petrolio). Trasportarlo implica un forte investimento infrastrutturale; ed una disponibilità comunque differita nel tempo dell’infrastruttura necessaria. Se penso di poter sostituire il gas russo solo con il gas di Cipro, devo sapere che ho bisogno di 2/3 anni per posare i tubi; e dunque che se questa è la situazione tecnicamente posso dirmi (temporaneamente) “dipendente” dal russo.

Cominciamo dalle infrastrutture disponibili. Nel 2016 abbiamo complessivamente importato 59,4 miliardi di mc. Via gasdotto (della rigassificazione parleremo dopo) oltre ai 22,7 dalla Russia ne sono venuti 17,2 dall’Algeria; 15,1 da Nord e 4,4 dalla Libia. Saremo “dipendenti”; però anche piuttosto diversificati nella dipendenza. Il tema diventa quello della intersostituibilità del fornitore. Siamo infrastrutturalmente in grado di farlo?

Guardando solo alle infrastrutture esistenti a prima vista parrebbe di sì. La nostra capacità continua di importazione, a fronte dei 59,4 miliardi utilizzati l’anno scorso, era di 127,166 miliardi di mc. Arrotondando, 39 dalla Russia (Tarvisio), 35 dall’Algeria (Mazara), 10 dalla Libia e 21,5 da Nord[2]. E’ normale che un’infrastruttura abbia una significativa quota di capacità in eccesso. Le manutenzioni possono interrompere o ridurre temporaneamente il flusso; la stagionalità esige una qualche flessibilità nei dispacciamenti quotidiani; e così di seguito.  Però una capacità doppia rispetto ai flussi è una ridondanza fuori misura; e comunque tale da consentirci la flessibilità di variazioni quotidiane di volume tra i fornitori ed anche una potenziale sostituibilità di ciascuno di essi.

Il problema semmai è che il gasdotto è un’infrastruttura rigida. Collega indissolubilmente una specifica area di produzione a uno specifico mercato.  Se la Russia vuole esportare in Cina non può girare i tubi che la collegano all’Europa, ma deve fabbricarsene di nuovi. E normalmente lo farà partendo da giacimenti diversi da quelli che usa per rifornire noi. La rigidità significa vincolo di provenienza e insieme vincolo di destinazione. E dunque dipendenza non tanto dal capriccio politico, quanto dalla capacità produttiva e di esportazione del fornitore.

Qui, in prospettiva, siamo messi men che benissimo. L’Algeria contempla piani di sviluppo che massimizzano l’uso del suo gas nel mercato interno; e che potrebbero porre limiti seri alla sua capacità di esportazione. La Libia è un produttore men che affidabilissimo. La Norvegia tiene (ma potrebbe tra qualche anno avere un problema di rimpiazzo delle riserve prodotte), mentre Groeningen (il più grande giacimento olandese) diminuisce bruscamente la produzione e potrebbe avere iniziato l’agonia. Se sostituiamo in linea di priorità il rischio geopolitico con quello geologico (il che, trattandosi di idrocarburi, potrebbe aver senso) ce ne esce (per paradosso?) che dei nostri fornitori via tubo la Russia è di gran lunga il più affidabile. La ridondanza della nostra infrastruttura ci consentirebbe virtualmente di farne a meno; ma l’evoluzione della capacità di export degli altri fornitori potrebbe farci scoprire che una quota significativa del nostro eccesso di capacità non è infrastruttura ridondante, ma solo un’ infrastruttura inutile.

 

 

Il mercato che si fa liquido

Obiezione. Se anche minimizzi il rischio politico, ti resta quello commerciale. Più lui (il russo) aumenta la sua quota di mercato più aumenta la sua capacità oligopolistica di fare il prezzo, ed importelo.

Sembra ragionevole; però forse aveva senso solo in passato. Fin qui si è detto del tubo. Che tradizionalmente sottende contratti di lungo periodo; rapporti bilaterali; clausole di take or pay: e quant’altro. Più del 30% del gas UE già oggi non funziona però così. Contratti spot o stagionali, mercati aperti e regolamentati, insomma qualcosa che si avvicina sempre più alle forme anonime della contrattazione petrolifera. La cosa a nostri fini più rilevante di questo mercato a breve è che si fa sempre di più price maker; nel senso che i prezzi a cui si fissano le contrattazioni agli hub , e dunque presso i mercati regolamentati, diventano sempre di più il riferimento in base al quale si fissano i prezzi da applicare alle consegne dei contratti di lungo periodo. Tradizionalmente il prezzo del gas si determinava ed indicizzava in funzione di quello del petrolio; oggi in Europa l’indicizzazione è invece sempre più “gas to gas”, ed il prezzo “del giorno” si forma con modalità trasparenti dentro a istituzioni con regole e natura largamente affini a quelli delle istituzioni borsistiche.

A questo rovesciamento della prassi tradizionale ha contribuito la diffusione del Gas Naturale Liquefatto. A -152 gradi il GNL ha una densità energetica paragonabile a quella del petrolio (1 a 0,7). Dunque può essere trasportato via nave. Dunque, a differenza del tubo, non ha vincolo di destinazione. Dunque ti rende il mercato un po’ meno regionale e un po’ più “globale”. Più aumenta la quota di GNL sul mercato delle compravendite internazionali di gas (oggi è intorno al 30%) e più aumenta, anche per l’allentarsi del rapporto provenienza/destinazione, la liquidità del mercato.

Dici GNL e di questi tempi pensi all’americano. Alla pubblicistica che annuncia guerra dei prezzi con Gazprom; o a quella che prima immaginava l’arrivo del gas americano in salvezza del popolo ucraino (ignorando che all’epoca negli Stati Uniti non era ancora attiva alcuna struttura di esportazione, e che in Ucraina ce lo avrebbero dovuto portare in mongolfiera; ma transeat…). Vediamo i numeri.  Le previsioni correnti accreditano gli Stati Uniti di una capacità di esportazione che supererà i 60 miliardi di mc (rigassificati) entro il 2020 per poi salire fino a 100 nel 2025 e a 150 nel 2035[3]. Nel 2015 cioè la capacità complessiva di esportazione americana pareggerà l’attuale export russo in UE.

Qualunque la previsione di export, la certezza poi è comunque che solo una frazione (forse assai) minoritaria dell’esportato arriverà in UE. Tutti i carichi partiti dagli Stati Uniti (terminale di Sabine Pass) dal Febbraio 2016 ad oggi sono stati rivenduti spot, e pressochè mai due carichi consecutivi hanno avuto la stessa destinazione. Del GNL esportato nel 2016, solo il 15% scarso è stato immesso nel sistema europeo; e per metà si trattava di carichi per la Turchia. Il secondo terminale (Cove Point) cambierà la statistica; ma solo perché la sua produzione è destinata per intero e con contratti di lungo periodo al mercato asiatico (in Asia le modalità contrattuali per il GNL sono mutuate da quelle tradizionali via gasdotto – lungo termine e indicizzazione a petrolio – soprattutto in ragione del mancato sviluppo ad oggi di un hub regionale). Quel che verrà in UE, se ci verrà, ci verrà spot. E lo spot va, giorno per giorno, là dove lo porta il prezzo.

Considerati i volumi complessivamente in gioco, e le modalità di loro commercializzazione, l’idea che l’americano possa “sostituire” il russo è perciò meno di uno stato d’animo. Però l’americano potrà avere un’altra funzione. Quella di diventare il price maker marginale. Lui sbarca in Europa solo se quel giorno gli conviene di più che andare in Asia o in Sud America. Il che significa che se l’oligopolista si prova a fare il prezzo, lui arriva e si prende una quota di mercato ai suoi danni. Via hub e trasparenza della formazione del prezzo, il mercato è già abbastanza liquido da obbligare chi ne detiene la fetta più grossa a comportamenti propri di un mercato concorrenziale.

Poi la concorrenza nella vulgata ci vien da chiamarla guerra; ma è solo perché siam cresciuti che accostare la parola “gas” alla parola “mercato” ci pareva eresia.

 

Segnali di prezzo e questioni europee

Ritorno alla ridondanza. Rigassificatori, cioè i luoghi da cui è possibile importare GNL e rigassificarlo per poi metterlo in rete. La capacità di rigassificazione installata in UE (28) è vicina ai 230 miliardi di metri cubi (per 197 miliardi disponibile e per 29 in fase di ultimazione)[4]. Quella effettivamente utilizzata sotto i 50. Se fate la differenza vi viene che la capacità di rigassificazione inutilizzata supera  i volumi di gas che importiamo via tubo dalla Russia.

Qui, a differenza che col tubo, non si è vincolati al fornitore. Basta che il prezzo sia competitivo, e ci siamo liberati dalla (presunta) dipendenza. Si ma allora perché usiamo i rigassificatori al 20% ed i tubi dalla Russia oltre il 60% della capacità?

Non è dipendenza psicologica. E non sono neanche i volumi impegnati con contratti di lungo periodo. E’ al margine giusto un segnale di prezzo. I rigassificatori restano (semi)vuoti perché il GNL lo pagano di regola meglio altrove. O anche, al rovescio, perché il russo costa comunque meno del prezzo che sarebbe necessario ad attirare in Europa volumi più consistenti di GNL. Il prezzo della dipendenza lo fa il mercato.

Poi a rigassificare di meno ci mettiamo del nostro. La capacità di rigassificazione europea è tale se la rete di trasporto è ben collegata ed integrata. E qui passi avanti sono stati fatti, ma per una vera “rete europea” (che darebbe tra l’altro un grande contributo alla sicurezza, con l’interconnettere volumi e stoccaggi in un unico sistema) ancora ce ne vuole. Prendete la Spagna. Ha una infrastruttura di importazione che è al 300% dei suoi consumi ed utilizza al di sotto del 25% una capacità di rigassificazione di oltre 60 miliardi di mc/anno. Però ha una capacità di esportazione “in Europa” di non più di 7 miliardi all’anno perché il progetto di ampliamento dell’infrastruttura esistente langue (adesso sembra che si ampli, ma vedremo). In compenso hanno avuto priorità europea in Paesi già appartenenti all’orbita sovietica progetti di inversione di flusso e collegamenti di gasdotti che rendono possibile utilizzare in direzione nord/est infrastrutture progettate per trasportare il gas russo in direzione sud/ovest. Insomma la politica europea ci consentirebbe volendo già oggi di esportare in Ucraina parte del gas acquistato ai russi dai tedeschi; ma rende virtualmente impossibili le “esportazioni” dalla Spagna in Europa. I protagonisti principali di questa politica delle priorità sono stati esponenti provenienti da Paesi ex sovietici (con un forte contributo francese a che poco valicasse i Pirenei); e per l’esperienza che loro ed i loro Paesi hanno alle spalle la loro fame di sicurezza è ben comprensibile. Però delegare priorità a soggetti portatori di risentimento, siccome anche casa nostra insegna, difficilmente partorisce la flessibilità necessaria alla mediazione della buona politica.

Chi si occupa di energia in quel di Bruxelles a volte sembra manifestare un certo bias antirusso (o forse, avendo lavorato con i russi a lungo, sono io ad essere biased e in conflitto di interessi). Un pezzo del dibattito su North Stream 2 tende al surreale. Ci sono connesse una serie di questioni tecnico-giuridiche (libertà di accesso di terzi all’infrastruttura, quote del gasdotto Opal, ecc…) che qui anche per loro complessità tralascio. Ma che vengono comunque usate essenzialmente come schermo al deliberare politico. Il timore della dipendenza dalla Russia che da energetica si fa politica tracima in fobia; ed il dibattito (?) sulle implicazioni per l’Ucraina che non sembra poter uscire dalle categorie dello scontro di influenze politiche. Il “mercato” o meglio la realtà dei rapporti commerciali ha pesantemente ridefinito la nozione e l’idea stesse di dipendenza; e la politica “estera” rifiuta di prenderne atto (forse anche perché se lo facesse le sembrerebbe di contare di meno).

A vederla laicamente, che ci si porti in casa senza costi diretti per il contribuente una nuova infrastruttura di importazione non pare disdicevole. Magari North Stream 2 è un poco “ridondante” (ma se non paga il contribuente rileva?); però la capacità produttiva che ha alle spalle esclude che ci diventi “inutile”.  Poi ci sono regole europee da seguire che la Russia deve rispettare. Poi ci può essere un problema di gestione e garanzia dell’Ucraina; e poi altro ancora, che giustifichi persino un veto politico. Però non è una battaglia per la libertà; e neanche una guerra di religione.

Se poi la domanda è (visto che con North Stream si ritorna al tubo) se sia comunque opportuno o meno diversificare ulteriormente i nostri fornitori, la risposta facile non può che anzitutto essere che dobbiamo accogliere a braccia aperte tutti quelli che investono per arrivarci (Trans Adriatic Pipeline mi pare un esempio, anche se in Puglia sono stati accolti con braccia men che aperte).

Se però dobbiamo metterci del nostro (sussidi, credito agevolato, riconoscimento in tariffa...) dobbiamo chieder conto ai nostri decisori non tanto di indipendenza e libertà, quanto più prosaicamente di costi e benefici. “Diversificazione” e “sicurezza” senza quell’analisi sono giusto parole in libertà; e ricerca di consenso emotivo.  In un mercato saturo come il nostro, il nuovo entrante non aggiunge volumi, ma spiazza concorrenzialmente quelli altrui.  Non si è sicuri che sarebbero i russi ad essere spiazzati (“geologicamente”, per quanto detto, ragioni di “sicurezza dell’approvvigionamento” ci stimolerebbero a sostituire progressivamente gli altri…). E soprattutto in un mercato saturo è difficile sbarcare con un prezzo concorrenziale che ti remuneri l’investimento e non solo i costi operativi. Fare arrivare gas da sud pensando che l’arrivo di nuovi volumi da Nord e la Germania come hub ci penalizzino competitivamente presuppone che il gas da Sud sbarchi a prezzi più competitivi. Non è detto, pensando agli investimenti necessari per sviluppare i giacimenti dell’Est Mediterraneo e realizzare la nuova infrastruttura da dedicare al loro trasporto, che questo sia possibile.

Magari sbaglio, e poi i numeri tornano. E’ solo che ho avuto una vita aziendale troppo lunga per non sapere che il ricorso alla parola “strategico” è il last resort per cercare di difendere un progetto cui non si trova giustificazione economica; e che di iniziative strategiche ripagate con le nostre bollette già mi par che sovrabbondiamo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[1] Qui e ove non altrimenti precisato si è utilizzata come fonte BP Statistical Review of World Energy

[2] Fonte : Snam Rete Gas

[3] World Energy Outlook, 2017

[4] Fonte : Gas Infrastructure Europe

Autore: Redazione BeGlobal