di Dario Rivolta * – da: NOTIZIEGEOPOLITICHE.NET
Theresa May non è certo una donna che sa suscitare simpatia a prima vista. Al contrario, visto da lontano e per chi non lo conosce personalmente, Boris Johnson appare come un simpaticone. I suoi atteggiamenti controcorrente, le sue buffonerie e l’impressione di sapere sempre con certezza ciò che vuole, lo rendono un personaggio accattivante.
Non la pensano però così quelli che lo conoscono da vicino e che han dovuto personalmente subire la sua abitudine alla menzogna, il suo opportunismo e la sua spregiudicatezza. Ciò che molti non sanno o non vogliono ricordare nel citare la sua biografia è che lui, prima di entrare in politica, era sì stato giornalista ma non un fedele seguace della dovuta deontologia professionale. Nel 1988 fu licenziato dal London Times per aver spacciato per vere delle affermazioni da lui attribuite a un ignaro uomo politico che non aveva mai incontrato.
Assunto dal Daily Telegraph (quotidiano considerato vicinissimo al Partito Conservatore) fu inviato come corrispondente a Bruxelles e, una volta sul posto, non perse l’abitudine di inventare storielle inesistenti questa volta in merito all’attività della Commissione Europea. Un esempio: in un suo articolo scrisse di un’inesistente (ma da lui spacciata per vera) volontà dell’Unione Europea di rendere obbligatoria una misura unica per le bare e le chiamò “Eurocoffins”. In un altro pezzo informò gli ignari sudditi della corona che Bruxelles aveva deciso di creare una “Forza di polizia bananiera” che avrebbe dovuto imporre e controllare in tutta Europa la forma del frutto commercializzato nell’Unione.
Un direttore dello stesso Daily Telegraph, tale Max Hastings, scrisse di lui lo scorso 24 giugno: “… si potrebbe dibattere se lui sia un mascalzone o un semplice furfante, ma nessuno può mettere in dubbio la sua bancarotta morale radicata nel disprezzo per la verità. Il suo ruolo di primo ministro rivelerà certamente un disprezzo per le regole, le consuetudini, l’ordine e la stabilità…… comunque il suo vizio più grave è la sua codardia, che si riflette nella volontà di raccontare a ciascuno qualunque cosa lui pensi possa fargli piacere, senza curarsi di contraddirsi un’ora più tardi…”.
Oggi tutti lo conosciamo come un duro sostenitore della Brexit, ma gente a lui vicina fa sapere che in occasione del referendum del 2016 e prima di annunciare la propria posizione, scrisse non uno ma due articoli, uno in favore del “leave” l’altro a favore del “remaining”. Optò di rendere pubblico solo il primo.
Non si sa se dopo averlo tirato a sorte o aver fiutato l’aria. Per confermare la sua intenzione che il 31 Ottobre, accordo o non accordo, la Gran Bretagna uscirà dall’Unione Europea, ha lanciato la parola d’ordine “Do or die”, cosa che sembrerebbe essere la sua “linea del Piave”. Purtroppo per lui, rispettare questo impegno non sarà facile ed è molto probabile che, con uno spavaldo sorriso sulle labbra, sia lui stesso ad annunciare un totale cambio di prospettiva. In effetti nello scorso marzo la Camera dei Comuni aveva votato con 312 voti contro 308 il rigetto dell’ipotesi che la Brexit potesse realizzarsi senza un accordo.
Lo scoglio nel contenzioso, apparentemente insormontabile, è quello che riguarda il “non-confine” tra le Irlande del sud e del nord. Per Bruxelles, e soprattutto per Dublino, re-instaurare un confine è considerato inaccettabile e potenzialmente foriero di nuovi scontri violenti nell’area. E’ però altrettanto indubbio che rinunciare a quel confine è visto da molti brexiter come propedeutico a una cessione di sovranità su quel territorio. E’ difficile dunque che si possa giungere a un accordo diverso da quello già concordato con la May e l’unica soluzione per non avere un’uscita ex–abrupto sembrerebbe quella di un nuovo rinvio. Oltre che molto difficile da concordarsi tra gli Stati membri, un nuovo rinvio smentirebbe tuttavia gli altisonanti annunci di Boris Johnson. Inoltre, l’unica chance che avrebbe per convincere gli europei a concedere altri mesi di negoziazione sarebbe l’annuncio di nuove elezioni in Gran Bretagna.
Considerati gli attuali sondaggi, nuove elezioni comporterebbero una probabile sconfitta del Partito Conservatore e quindi la perdita della posizione di primo ministro per cui tanto ha brigato.
Gli restano solo tre altre possibilità: sfidare il Parlamento e decidere comunque l’uscita, infischiarsene del voto popolare e annunciare che la Gran Bretagna resterà nell’Unione, oppure aprire a un nuovo referendum sulla questione.
Nel primo caso andrebbe incontro a un voto di sfiducia che molto probabilmente lo condannerebbe.
La seconda opzione gli richiederebbe di arrampicarsi sugli specchi per riuscire a spiegare ai britannici come e perché abbia rinunciato al “do or die”. Considerata la sua inveterata abitudine al cambio di linea questo voltafaccia non si può escludere, ma certamente la cosa si presenta come molto difficile.
Gli resterebbe quindi l’ultima scelta e, visto che anche i laburisti sono tornati a chiederlo, un “duttile” Boris potrebbe adattarvisi, adducendo supremi interessi di unità nazionale. Non è detto che sia questa la strada che prenderà, ma uscire dal cul de sac in cui ora si trova gli costerà molta più fatica di quanta ne aveva impiegata per soffiare il posto alla May.
* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.
Autore: Redazione BeGlobal