La settimana scorsa un ex ingegnere comunale della città americana di
Virginia Beach — descritto dalla polizia come “disgruntled”, “scontento”
— è tornato nell’ufficio dove aveva lavorato con una pistola calibro
.45 e ha ucciso 11 ex colleghi, ferendone altri 6.
Il “mass
shooting” — la definizione comprende l’uccisione o ferimento di quattro o
più persone insieme — era il 150esimo dell’anno negli Usa ed era al di
sopra della media. L’ultimo episodio paragonabile si è avuto a novembre,
a Los Angeles, con 12 vittime, quando un ex marine, presumibilmente
“disgruntled” anche lui, è entrato in un locale country & western e
ha aperto fuoco sugli avventori.
Eppure, il tasso generale di
omicidi negli Usa è — secondo dati Onu — significativamente al di sotto
della media mondiale, 5,35 vittime per centomila di popolazione rispetto
al dato globale, 6,2 per centomila. Nella classifica UNODOC — United
Nations Office on Drugs and Crime — gli Stati Uniti sono solo al 90°
posto nel mondo. Sono ampiamente superati da altri paesi più o meno
civilizzati come la Russia (10,82 per centomila), Messico (19,26),
Brasile (29,53), Jamaica (47,01) e il sanguinoso trio sudamericano,
Venezuela, Honduras e El Salvador (rispettivamente: 56,33, 56,52 e 82,84).
I dati sono del 2016 ed è ipotizzabile che il Venezuela abbia
intanto guadagnato qualche posizione. L’Italia invece “si uccide” ad un
tasso bassissimo: 0,67 persone per centomila; la Francia il doppio, 1,35
per centomila, la Germania 1,18, e gli inglesi, 1,20 per centomila.
L’Europa, storicamente, ha sempre preferito dissanguarsi periodicamente
in guerre continentali che spazzavano via intere generazioni di giovani.
Ad
ogni modo, se gli americani sembrano favorire — in termini relativi —
ammazzarsi in gruppi anziché alla spicciolata, come si spiega il
fenomeno?
Non è solo per la disponibilità di armi. Degli 89 paesi più
“omicidiosi” degli Stati Uniti molti limitano, almeno in via teorica, il
possesso di armi da fuoco, eppure non sembrano attratti dai piccoli
“stermini di massa” che caratterizzano “the American way of violence”.
Il fenomeno parrebbe quasi rispecchiare l’attenzione americana al
commercio su larga scala, la grande distribuzione organizzata rispetto
al piccolo negozio di quartiere: come per dire, se dobbiamo prepararci
per ammazzare uno, tanto vale uccidere anche degli altri…
Strano a
dirsi, l’idea potrebbe trovare una sorta di conferma — almeno per
quanto riguarda il meccanismo mentale — nella straordinaria prevalenza
di ingegneri tra i terroristi islamici. Nel 2016, in un libro della
Princeton University Press, “Engineers of Jihad”, due ricercatori, il
sociologo Diego Gambetta e lo scienziato politico Steffen Hertog, hanno
ipotizzato che una “particolare forma mentis che cerca ordine e
gerarchia e che si trova più di frequente tra gli ingegneri” potrebbe
spiegare il sorprendente dato di base che avevano trovato esaminando la
scolarizzazione di militanti islamici violenti di trenta paesi: “Di
quelli i cui studi sono andati oltre al liceo, il 44 percento avevano
studiato ingegneria”.
L’ipotesi è controversa — specialmente tra
gli ingegneri — ma se avesse un minimo di fondamento, potrebbe forse
offrire una possibile spiegazione del comportamento degli assassini di
massa americani.
Dipenderebbe dalla spinta verso l’efficientismo, una
nota caratteristica culturale Usa: già che ci siamo, mettiamo un po’
d’ordine...