I “nippo-brasiliani” sono i cittadini del Brasile di origine giapponese. Non sono pochi, quasi due milioni. I primi arrivarono all’inizio del secolo scorso e oggi il Paese ospita la più grande popolazione nipponica al di fuori della Madre Patria, per la maggior parte concentrata negli stati meridionali di São Paulo e del Paraná.
Fu un flusso migratorio dai confini insolitamente nitidi. Iniziò il 18 giugno del 1908, quando la nave Kasato Maru, partita da Kōbe, attraccò nel porto di Santos con 781 lavoratori destinati alle piantagioni di caffè dell'entroterra paulista. Gli arrivi cessarono quasi totalmente dopo il 1973, quando approdò la Nippon Maru, recando l’ultimo carico di lavoratori. L’immigrazione nacque dai problemi speculari dei due paesi. Il Giappone era da poco uscito dal feudalesimo e il collasso dei feudi tradizionali lasciò a spasso un enorme numero di lavoratori agricoli, improvvisamente senza padrone e senza di che mantenersi.
Il Brasile invece aveva recentemente abolito la schiavitù, nel 1888, l’ultimo paese occidentale a liberare i suoi schiavi. L’eccesso di manodopera da una parte e la scarsità dall’altra fecero il resto.
I “caporali” brasiliani reclutavano anche nell’Italia dell’epoca. Le terribili condizioni di lavoro—dove anziché un paradiso tropicale gli immigrati trovarono “tecniche di gestione” che dovevano ancora molto alla tradizione schiavista—scatenarono una reazione che portò al decreto Prinetti, un provvedimento del
Governo italiano del 1902 che impediva la cosiddetta “emigrazione sussidiata” verso il Brasile.
Andò peggio ai giapponesi, alieni sotto ogni profilo rispetto alla cultura, la fede, la lingua, la dieta, il clima e anche le caratteristiche razziali del nuovo paese. Mentre gli italiani, favoriti dalla comune fede cattolica e la lingua neo-latina, si integrarono relativamente in fretta, i giapponesi del Brasile, pur adottando lentamente la lingua portoghese, sono rimasti un popolo a parte. Nel secolo scorso uno storico brasiliano paragonò la popolazione allo zolfo: “giallo e insolubile”. Solo in tempi recenti, per esempio, comincia ad emergere una cucina “fusion” che combina elementi delle due tradizioni con piatti come la “berinjela nikkei”, melanzana condita con miso e farcita con formaggio di capra e anacardi.
Il Giappone, attivamente complice nel promuovere il duro esilio brasiliano dei propri cittadini per motivi di ordine pubblico, ha negli ultimi decenni avuto un ripensamento e tenta invece di favorire il rientro dei suoi “oriundi”. Circa 300mila nipo-brasileiros sono tornati in Patria finora. Il progresso nel reinserimento dei giapponesi “sudamericani” si è rivelato però più difficile del previsto—non per ostacoli posti dallo Stato, ma piuttosto per la resistenza della società civile. Mentre gli oriundi possono avere la faccia nipponica, nei fatti sono ormai degli stranieri. Non parlano più che poche parole della lingua, hanno assorbito altri costumi e ignorano quelli del paese ancestrale. I neo-arrivati vengono equiparati dai più a degli immigranti, indesiderati per giunta—quelli a cui imporre i lavori più schifosi, detti i “tre kappa”, Kitsui, Kitanai e Kiken: duro, sporco e pericoloso. Così, i “nipos” restano senza una
propria patria. Non appartengono né da una parte né dall’altra.