La politica di massima pressione degli Stati Uniti sull’Iran, cominciata con l’aggiunta dei Guardiani della Rivoluzione alla lista delle organizzazioni terroriste, continuata con la cancellazione delle esenzioni sulle esportazioni di petrolio e perfezionata con le sanzioni contro il settore metallurgico, che punta a soffocare economicamente Teheran per arrivare a un regime change, ha portato a un aumento delle tensioni nel Golfo persico.
In America come in Iran, un intenso dibattito interno ruota attorno al metodo da applicare, ma non sulla questione di fondo (l’ostilità irriducibile tra i due paesi).
A Washington sembra che la prosecuzione della politica di sanzioni abbia avuto la meglio sull’opzione militare sostenuta da John Bolton, soprattutto in ragione dell’avvicinamento delle elezioni. La linea aggressiva potrebbe in tutti i casi trionfare se Trump fosse rieletto.
In Iran, i pragmatici tentano di provare che si può salvare l’accordo nucleare. Così, per mettere pressione ai firmatari dell’accordo (soprattutto europei), il presidente Rohani ha annunciato che da qui a 60 giorni l’Iran smetterà di rispettare alcune clausole del Jcpoa se il paese non otterrà più benefici dall’accordo.
Allo stesso tempo, Javad Zarif ha effettuato un tour in Asia (India, Giappone, Cina) per cercare sostegno. E ha avuto un certo successo: la Cina ha promesso che continuerà a importare petrolio iraniano. Leggi il seguito
Dall’altro lato, chi rifiuta la linea pragmatica vede ora la sua ideologia della resistenza confermata. L’Iran assomiglia sempre di più all’Unione sovietica degli anni ‘80, segnata da una crisi strutturale e incapace a riformarsi.
Nota bene: Dal canto suo, l’Unione europea appare passiva e incapace di reagire alla crisi che minaccia ogni possibilità di integrare l’Iran nel sistema internazionale. In effetti, non bisogna perdere di vista che le forze militari europee presenti nella regione sono impegnate al fianco della Nato e delle monarchie del Golfo. Anche se i militari europei contribuiscono alla distensione con delle dichiarazioni moderate, in caso di conflitto saranno sicuramente implicati sul terreno.
GEG I Polo cartografico © Le Grand Continent
In America come in Iran, un intenso dibattito interno ruota attorno al metodo da applicare, ma non sulla questione di fondo (l’ostilità irriducibile tra i due paesi).
A Washington sembra che la prosecuzione della politica di sanzioni abbia avuto la meglio sull’opzione militare sostenuta da John Bolton, soprattutto in ragione dell’avvicinamento delle elezioni. La linea aggressiva potrebbe in tutti i casi trionfare se Trump fosse rieletto.
In Iran, i pragmatici tentano di provare che si può salvare l’accordo nucleare. Così, per mettere pressione ai firmatari dell’accordo (soprattutto europei), il presidente Rohani ha annunciato che da qui a 60 giorni l’Iran smetterà di rispettare alcune clausole del Jcpoa se il paese non otterrà più benefici dall’accordo.
Allo stesso tempo, Javad Zarif ha effettuato un tour in Asia (India, Giappone, Cina) per cercare sostegno. E ha avuto un certo successo: la Cina ha promesso che continuerà a importare petrolio iraniano. Leggi il seguito
Dall’altro lato, chi rifiuta la linea pragmatica vede ora la sua ideologia della resistenza confermata. L’Iran assomiglia sempre di più all’Unione sovietica degli anni ‘80, segnata da una crisi strutturale e incapace a riformarsi.
Nota bene: Dal canto suo, l’Unione europea appare passiva e incapace di reagire alla crisi che minaccia ogni possibilità di integrare l’Iran nel sistema internazionale. In effetti, non bisogna perdere di vista che le forze militari europee presenti nella regione sono impegnate al fianco della Nato e delle monarchie del Golfo. Anche se i militari europei contribuiscono alla distensione con delle dichiarazioni moderate, in caso di conflitto saranno sicuramente implicati sul terreno.
GEG I Polo cartografico © Le Grand Continent