Nel tardo autunno scorso, quando l’isterismo Brexit non si era ancora pienamente maturato e i giornali britannici avevano ancora spazio per altro, c’è stata una breve tempesta mediatica riguardo a una “raccomandazione” della RSPCA — la Royal Society for the Prevention of Cruelty to Animals, la “protezione animali” — secondo la quale chi obbligava il proprio gatto a seguire una dieta vegana poteva star infrangendo la legge e rischiava addirittura di andare in galera per l’abuso commesso.
Un portavoce dell’Associazione ha infatti ricordato che, a differenza dei cani — abbastanza onnivori — i gatti sono dei carnivori obbligati e hanno bisogno di mangiare frequentemente la carne per restare in salute. Ha citato il codice criminale inglese secondo il quale i padroni dei pets debbano “intraprendere ogni azione necessaria per assicurare il benessere dei loro animali”, ricordando che “ciò comprende fornirgli una dieta adeguata” e che nel caso di abusi gravi, si rischiava una multa pesante o perfino una sentenza penale per maltrattamento.
Il boom vegano pare ormai in declino, forse perché la grande maggioranza — il 70% secondo lo Humane Research Council americano — si stufa dopo un po’ e torna a mangiare la carne.
L’episodio inglese e la reazione che ha provocato mostrano però punti di similitudine con un altro fenomeno attuale, il movimento No-Vax, sia nella volontà di respingere le “verità scientifiche” sia nella scelta delle argomentazioni. Il “Tweet storm” vegano in reazione al consiglio della protezione animali verteva fondamentalmente su tre temi: “Sono la sua mamma e so io cosa fa bene al mio Fuffi”, “Che c’importa di cosa dicono quelle mummie di scienziati che ci rimpinzano di tanti veleni” e “Le loro ricerche sono pagate dai signori della Kitekat”. Rispecchiano da vicino il ragionamento No-Vax.
Questo è interessante perché, oltre al comune rifiuto dei risultati scientifici convenzionali, qui si annida un altro punto di condivisione tra il veganismo e il movimento anti-vaccino. Almeno nel mondo anglosassone, entrambi i fenomeni sono molto marcatamente femminili. Secondo i dati demografici, l’80 percento dei vegani americani sono piuttosto “vegane”. Percentuali simili, sempre con un margine ampio, sembrerebbero riguardare il fenomeno No-Vax, anche se quest’ultimo è più recente e meno studiato. Una ricerca apparsa su “Information, Communication & Society” e condotta da due studiosi australiani, Naomi Smith e Tim Graham — basata su un’analisi di due anni di “post” sulle pagine Facebook No-Vax più frequentate — dimostrerebbe, secondo gli autori, che il movimento sia “highly feminised” e che: “la vasta maggioranza dei partecipanti sono donne”.
In tutto l’Occidente, le donne hanno mediamente una preparazione scolastica migliore di quella degli uomini. Negli Usa, dove la tendenza è arrivata con ritardo, le donne che oggi prendono una laurea universitaria sono il 38% rispetto al 33% degli uomini. Si sa che le femmine leggono di più e comprano più libri. C’è chi attribuisce l’attrazione per le eresie mediche a un retaggio storico: le donne sono state tradizionalmente le “garanti” del benessere della salute della famiglia. Sarebbe dunque “culturalmente” coerente che si preoccupino maggiormente per i temi sanitari. L’ipotesi, con la sua visione retrograda del ruolo femminile, non è però universalmente gradita.